Un punto di vista diverso, ecco quello che offre il castello crociato di Al Habis. Ci troviamo a Petra, un ideale – ormai – più che un sito archeologico, un’icona, con quel taglio nella roccia che lascia intravedere la ben nota quinta architettonica del “tesoro del Faraone”, ovvero la tomba nabatea che ci colpisce ogni volta che finiamo di percorrere il corridoio roccioso chiamato Siq. A Petra, dunque, nabatea e romana, dove le carovane di turisti si sono con il tempo sostituite a quelle beduine e le tracce di queste ultime sono gli ampi tendoni che ospitano piccoli bazaar e dissetanti tazze di tè. A Petra, dove ogni anfratto può rivelare una tomba decorata, un teatro, un tempio.
Ebbene, sopra a tutto ciò svetta un spuntone di roccia che ospita, ormai affranto dal tempo, il castello che i crociati costruirono per controllare un ampio territorio. La missione archeologica voluta da Guido Vannini e oggi diretta da Michele Nucciotti nacque proprio con l’intento di indagare le dinamiche insediative dei periodi crociato-ayyubidi in Transgiordania: Al Habis, così come Shobak, sono le punte di diamante di tali ricerche squisitamente italiane. Aggirarsi nel nido delle aquile crociate significa avventurarsi nell’anima medievale di Petra: solo un occhio allenato, o guidato da chi è esperto, può scorgere i tagli dei canali di scolo, le pietre sagomate che definivano chiavi di volta oppure resti di muri. Se da una parte si conserva la porta d’accesso principale, sul lato opposto dello sperone sono ancora percorribili gli stretti scalini che offrivano una nascosta via di fuga in caso di assedio. Proprio sul lato “posteriore” una bassa terrazza di pietra ospita Mofleh, beduino ormai noto ai lettori di Lonely Planet e National Geographic: entro la “sua” tomba nabatea, egli allestisce un tè squisito e un pranzo veloce, condito dalla sua gentilezza e dal suo sorriso. Chiara Marcotulli, archeologa impegnata da anni negli scavi e nei rilievi delle strutture di Al Habis – e non solo – racconta di un’amicizia pluriennale con Mofleh, sempre pronto a offrire riposo e ristoro agli studiosi delle rovine di Petra.
Al Habis è una delle strutture fortificate al centro di un progetto internazionale, che mira a indagare e valorizzare la rete di castelli crociati e che dunque comprende anche Shobak. Qui hanno luogo gli attuali scavi della Missione Archeologica italiana “Petra Medievale – Progetto Shawbak”, promossa dal Dipartimento SAGAS dell’Ateneo fiorentino e portata avanti grazie all’impegno degli archeologi dei Laboratori Archeologici San Gallo, spin-off accademico della Cattedra di Archeologia Medievale dell’Università di Firenze. Anche nel caso del castello di Shobak, la visita guidata da Chiara Marcotulli permette di guardare l’area delle rovine e quella circostante con un occhio più percettivo: il toponimo di questa collina fa riferimento a un sito verdeggiante, cosa che ormai possiamo solo immaginare. Eppure Shobak venne costruito proprio per controllare un paesaggio di wadi, ruscelli, immersi in sentieri rigogliosi: dalla collina si poteva dominare la via dei Re biblici, percorsa per secoli, fino all’età romana che ne ribattezzò una parte come via Nova Traiana.
La ricerca degli studiosi italiani ha permesso di rimettere ordine anche nelle fonti, oltre che nelle rovine abbandonate: nel 1115 re Baldovino fonda Mont Real e costruisce il castello “in quindici giorni”, una iperbole, naturalmente, che fa intendere come la zona fosse già abitata. I crociati dunque sfruttano un primo villaggio e lo fortificano e lo ampliano, aggiungendo poi un quartiere degli ospitalieri e la chiesa di Santa Maria. Mont Real entra quindi nelle mire di Ṣalāḥ al-Dīn Yūsuf ibn Ayyūb, al secolo il Saladino e dopo un assedio di due anni è conquistato dagli Ayyubidi. A questi si sostituiscono i Mamelucchi, padroni di Shobak dal 1260 al 1517: con loro assistiamo a un’epoca gloriosa, dove il castello diviene centro di smistamento delle merci, controllo delle vie carovaniere e di produzione di tessuti e saponi. Dopo i Mamelucchi sarà la volta degli Ottomani, come attestano le cronache e le testimonianze materiali, ordinatamente raccolte nel lapidarium allestito sotto la chiesa principale del fortilizio. Dalla pietra e dalla sabbia emergono colline solitarie, basta salirvi con gli occhi giusti per cominciare a guardare la storia.
Testo e foto di Stefania Berutti, archeologa
I castelli crociati fanno parte dell’itinerario di visita del tour archeologico “Giordania: viaggio tra castelli e carovane” in programma dal 18 al 26 febbraio 2022 organizzato in collaborazione con I Viaggi di Archeologia Viva.
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