Gli archeologi italiani: la stagione dei successi internazionali
Il lavoro degli archeologi italiani tra la metà dell’800 e i primi decenni del Novecento è costellato da scoperte eccezionali e imprese di grande valore sia sul piano della ricerca scientifica che dello spirito indomito dell’esplorazione: a Roma Giacomo Boni (dal 1898) e Rodolfo Lanciani (alla Direzione Generale dei Musei e Scavi tra il 1887 e il 1890) disegnano la città antica nei suoi luoghi più emblematici, a Pompei Giuseppe Fiorelli sperimenta la tecnica dei calchi per ridare vita ai poveri resti di chi fuggiva dall’eruzione (1858) e procede con la messa in luce di grandi fette dell’abitato, i lavori di Paolo Orsi in Magna Grecia e Sicilia sono pionieristici e fissano le basi per interpretazioni e scoperte future, ma contemporaneamente gli archeologi sono attivi anche all’estero. A Creta, per esempio, Federico Halbherr porta alla luce la grande iscrizione di Gortina (1884) e Luigi Pernier identifica correttamente le strutture del palazzo di Festòs e ritrova il celebre “disco” (1908).
Nasce dunque l’esigenza di accogliere le figure di grandi studiosi e i loro allievi in strutture accademiche che forniscano gli strumenti necessari alla ricerca: il Regno d’Italia riconosce l’importanza di tali studi e saluta con orgoglio il fiorire di iniziative che possano dare lustro all’Italia anche in contesti internazionali. Con la fondazione della Scuola Italiana Archeologica di Atene (1909) si consolida la ricerca archeologica nell’Egeo e nel Mediterraneo Orientale. Da qui il passo successivo è la Libia, dove gli studiosi italiani scoprono Leptis Magna e Cirene e cominciano un lavoro di ricerca estremamente importante in tutta la Tripolitania. A livello governativo si formano le Missioni Scientifiche del Levante, che servono a coordinare gli sforzi – e i finanziamenti – delle campagne di scavo e ricerca.
La propaganda a Malta
Con l’avvento del partito Fascista anche l’archeologia diviene strumento per creare una cassa di risonanza alla propaganda mussoliniana: l’Italia è luogo d’origine della civiltà romana e il governo fascista ha a cuore la difesa della memoria gloriosa, la difesa del concetto di “romanità”, in realtà creato ad hoc per titillare le aspirazioni personali di una classe dirigente molto poco eroica. È in questa ottica che incontriamo i primi interessi italiani nell’archeologia di Malta. All’isola veniva infatti riconosciuta una naturale funzione di ponte lanciato nel Mediterraneo verso l’Africa, attraverso il quale dovette passare fatalmente l’idea del cristianesimo che dall’oriente compì un viaggio per romanizzarsi. L’episodio maltese di San Paolo che rimase sull’isola finché non ebbe convertito i maltesi, in primis il figlio del governatore romano, al cristianesimo prima di recarsi a Roma, fu utilizzato per comprovare il destino romano e cattolico di Malta. La storia dell’arcipelago maltese confermava, nell’ottica fascista, il valore geografico e storico di Malta come barriera all’espansione musulmana.
Uno dei protagonisti di questo interesse governativo alle antichità maltesi fu Luigi Maria Ugolini, già autore di eccezionali scoperte in territorio albanese: tra il 1924 e il 1935 giunse a Malta per condurvi delle ricerche nell’intento di compiere una ricognizione dei siti preistorici, effettuare una catalogazione del materiale conservato presso il Museo di Valletta e pubblicarli. Ugolini si proponeva di dimostrare come Malta, piuttosto che Creta, fosse la culla della civiltà mediterranea e, nelle parole del ministro dell’educazione nazionale, Francesco Ercole, le ricerche di Ugolini gettarono “una luce del tutto nuova sulla primissima civiltà maltese, rivendicando a essa un primato mediterraneo probabilmente anteriore a quello di Creta, non in funzione di influenze etniche e culturali dell’Oriente o del Nord”, tuttavia il ministro continuava rilevando come queste eccezionali ricerche non erano effettivamente mai arrivate a lambire l’orizzonte delle antichità greco-romane. Cionondimeno, nella mostra sull’Italianità di Malta del 1941 una sezione era dedicata proprio all’archeologia, così come nella Mostra Augustea della Romanità fu inserita una sezione dedicata a Malta, grazie all’invio dei calchi di scultura romana conservati presso il Museo di Rabat.
La Missione Archeologica Italiana a Malta
Si deve a tutt’altra prospettiva storico-scientifica la nascita della Missione Archeologica Italiana di Malta, formatasi agli inizi degli anni ’60 del Novecento, grazie all’impegno di Michelangelo Cagiano de Azevedo, invitato dal Ministro per l’Educazione del Governo maltese a valutare le potenzialità archeologiche di età storica. Nel 1963 de Azevedo e Sabatino Moscati, direttore dell’Istituto di Studi del Vicino Oriente dell’Università La Sapienza di Roma, diventano co-direttori della Missione e vengono affiancati per le operazioni di scavo da Antonia Ciasca. I primi siti selezionati per l’indagine sono Tas-Silġ, cioè un santuario di Astarte-Hera (Marsaxlokk), la villa agricola romana di San Pawl Milqi (Burmarrad) e il sito rupestre di Ras-il-Wardija, sull’isola di Gozo.
Le campagne di scavo si susseguono fino al 1970, incontrando poi un’interruzione forzata da problemi di natura economica. Nel 1995 riprendono con la partecipazione di tre Università: la Cattolica del Sacro Cuore di Milano, La Sapienza di Roma e l’Università del Salento. Mentre l’Università di Malta avviava ricerche archeologiche nella parte meridionale del sito, la Missione ha proseguito nella parte settentrionale.
Ricerche preziose a Malta
Uno dei successi più clamorosi delle ricerche della Missione italiana è legato allo scavo del santuario di Tas-Silġ, dove gli archeologi hanno lavorato in équipe con studiosi di campi affini, con l’intento comune di comprendere la storia e soprattutto il ruolo del santuario dalla preistoria all’età bizantina, nel quadro delle dinamiche di sviluppo storico-culturale del Mediterraneo centrale. Pochi anni dopo l’istituzione della missione di Malta, Moscati e Ciasca si sono ritrovati insieme nell’indagine di Mozia, in Sicilia, seguendo un filo conduttore della presenza fenicia nel Mediterraneo, che ancora offre scoperte di grande importanza proprio nell’ottica di ricostruire il Mediterraneo delle origini.
Il lavoro degli esperti italiani si avvale della collaborazione della Superintendence of Cultural Heritage e Heritage Malta con i quali vengono organizzate numerose iniziative, non solo per consolidare le strutture scavate, ma anche e soprattutto per diffondere il più possibile la conoscenza di queste sia tra i maltesi che su un piano internazionale.
Testo di Stefania Berutti, archeologa
Per approfondire:
Maria Grazia Strano, Dal 1963 gli archeologi italiani lavorano a Malta: ecco cosa fanno, Corriere di Malta, 21/11/2019
M.P. Rossignani, F. Airoldi, E. Grassi, Missione archeologica italiana a Malta, Laboratorio di Archeologia Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano, ottobre 2011
Deborah Paci, Il mito del Risorgimento mediterraneo. Corsica e Malta tra politica e cultura nel ventennio fascista, tesi di laurea Università degli Studi di Padova, Université Nice Sophia Antipolis
Alessandra Tomassetti, Immagini dell’archeologia italiana in Libia. Documentazione e propaganda dall’Archivio storico Luce, Luce per la didattica
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